Andalusia, caliente Spagna del Sud. I soliti stereotipi, un po’ come ‘Italia, pizza e mandolino‘. Infatti uno dei ricordi che ho del mio viaggio in Andalusia non è certo il caldo, bensì il freddo sofferto durante la visita all’Alhambra di Granada. Ora però basta con gli spoiler, ecco a voi, secondo un’usanza ormai consolidatissima di Treeaveller, l’elenco delle 5 cose che ho imparato durante il mio viaggio in Andalusia.
Indice
1. La terra caliente sa essere freddissima
Granada, 10 gennaio, ore 10.00 AM
Scendiamo dall’autobus che in poco più di un’ora ci ha condotto da Malaga a Granada e già mi assale un freddo epico ai polpacci, mi azzanna come un demone inferocito, il maledetto!
“Ma come”, penso “a Malaga eravamo quasi in tenuta da spiaggia!”.
Caro il mio ingenuo Federico, forse conviene ripassare un po’ di geografia: Malaga è sul mare, un mare tranquillo e amico, calduccio come il ventre di una vacca e gode di tutti i privilegi delle città di mare, primo fra tutti il clima mite.
Granada, Federicuccio bello, è all’interno, proprio sotto il massiccio della Sierra Nevada (e se ha quel nome ci sarà un motivo, no?), a quasi 700 metri sul livello del mare, con un clima tipico continentale che tradotto significa “in inverno fa un freddo bestia!”.
E così durante la visita all’Alhambra faccio di tutto per raschiare ogni possibile raggio di sole: a volte l’impresa di riscaldarmi mi riesce, altre volte invece mi sembra di impazzire, sogno calze termiche, scarpe termiche, pantaloni termici, mutande termiche, bevande termiche. Risultato: mi godo l’Alhambra solo a metà ed è un peccato mortale!
Basta, ho deciso: questa storia del freddo deve finire. Dichiaro il freddo “uno stato mentale” e da oggi in poi, il Sultano di Granada mi è testimone, non soffrirò più il freddo in vita mia!
….
“Ora però potete accostare la finestra laggiù che qui arriva un certo venticelloooo?”
2. Vai per ‘tapear’ e ti ritrovi a mangiare mezze porzioni
Introduzione per neofiti
Tapear: termine spagnolo che significa “fare un giro di tapas”
Tapas: preparazioni tipiche della cucina spagnola consumate come aperitivi o antipasti (una via di mezzo tra un cicchetto veneziano e un moderno ‘finger food’)
Ora, siamo in Spagna, non vuoi andare a tapear? Certo che sì! E allora vàmos! Guarda quanti bei locali! Va questo che carino! Entriamo, dai.
“Hola, noios volevamos tapear, se puete?”, esordisco esibendo un fluente spagnolo appreso guardando Benigni e Troisi in ‘Non ci resta che piangere”.
“Certos! Occomodatevis!”, risponde il cameriere, anche se non giurerei abbia detto proprio queste parole, ma siamo lì.
E insomma, per farla breve, chiedo le tapas e lui risponde (traduco) “eh, però no, niente tapas! Ma vi propongo qualcosa di meglio! Prendete le mezze porzioni e dividete! È come le tapas ma meglio delle tapas!” E ci porta un menu scritto a mano su una sobria lavagna grande all’incirca come un cartellone elettorale del Berlusconi dei tempi d’oro: 6 metri per 3. Tutta roba sfiziosa e quindi ok, prendiamo le mezze porzioni “da compartir”.
Ci arriva tutta roba davvero buonissima (tra cui un baccalà da urlo!) e quindi ci dichiaramo abbastanza soddisfatti. Certo però… però noi volevamo tapear e… un momento! Ma perché al tavolo vicino il cameriere sta portando delle tapas? Ma… ma… Qui con la scusa che l’italiano e lo spagnolo bene o male si somigliano mi sa che qualcosa è andato perso nella mia conversazione con il cameriere.
Mio faccio un veloce appunto mentale: “lasciare parlare Simona, lei almeno lo spagnolo lo conosce veramente“. E infatti la sera seguente imbocchiamo un altro locale carinissimo, lascio fare tutto a Simona e ‘tapeiamo’ alla grandissima. Come volevasi dimostrare.
Bueno, ho avuto la confermas: con lo spagnolos faccio proprio schifos
3. “La cuenta se paga en la mesa!”
Segnatevi questa cosa: in Spagna mai e dico mai alzarsi dal tavolo per andare a pagare in cassa. C’è il rischio di venire azzoppati dal gorilla del locale, o di essere inseguiti dalla policía, manganelli alla mano.
Ma mettetevi nei nostri panni! Dunque, abbiamo in programma un pranzo velocissimo in spiaggia, alla Playa de la Malagueta: così puntiamo un chiringuito e ordiniamo senza indugi “el famoso espeto de sardinas“, il tipico spiedino di sardine freschissime cotte alla brace.
Mangiato, bevuto, fatte due chiacchiere, chiesto il conto.
Attendere prego…
Dopo quasi 20 minuti ‘la cuenta’ non arriva e noi – as usual – abbiamo non solo i minuti ma anche i secondi contati: dobbiamo vedere un sacco di roba! Dobbiamo andare! Hop! Hop! Per questo decidiamo di alzarci e di andare verso la cassa.
Non l’avessimo mai fatto! Il cameriere, che fino a quel momento ci aveva ignorato come Di Maio i congiuntivi, ci insegue col sopracciglio increspato e il bicipite già gonfio. Poi si calma vedendo che in mano ho la carta di credito e sul volto l’espressione tipica del bonaccione. Prende il pos e mi redarguisce un po’ nervoso: “Recuerda, en Espana la cuenta se paga en la mesa!“.
Ehi, amico spagnolo, stai tranquillo, da ora in poi me lo ricorderò! Tu però, la prossima volta, un po’ più veloce eh?
4. Qui ho bevuto il miglior espresso della mia vita da caffeinomane
Qui in Spagna, certo. Ma meglio essere precisi: in Spagna ho bevuto anche caffè orrendi, un po’ come in molti bar italiani purtroppo.
Ma a Malaga, al bar-torrefazione Santa Coffee (un tempo si chiamava “Santa Canela”), ho bevuto un espresso che per fortuna non trovo qui a Roma, altrimenti la mia dose giornaliera di caffeina potrebbe subire un’impennata tale da portare la mia pressione sistolica alle stelle e innescare un esplosivo periodo di insonnia.
Attenzione: anche in Italia esistono posti non solo bellissimi e storici dove prendere un caffè, ma anche dove l’espresso è fatto a regola d’arte ed è un vero piacere per il palato (ve ne abbiamo parlato nel pezzo ‘Locali storici d’Italia, in giro per la Penisola seguendo il profumo del caffè‘). Però la qualità e la perfezione raggiunta dal Santa Coffe davvero non l’avevo mai provata prima. Uno spettacolo! (PS: anche i dolci sono buonissimi! Insomma, se capitate a Malaga non fatevi sfuggire questo gioiellino di posto!)
5. Mai fidarsi delle monache
“E ora, cara Simona, finita la (gelida) visita all’Alhambra, ti porto in un posto davvero particolare: ho letto che in un convento qui vicino ci sono delle monache che fanno dei dolcetti bellissimi e buonissimi e li vendono in un bugigattolo che ricorda un confessionale! Carino, no? Le vecchine… le monachine… i dolcini… ci facciamo anche le foto… vieni, vieni… tutto questo freddo, ce lo siamo proprio meritato un bel dolcino! Ecco, giriamo qui, siamo quasi arrivati eh… già me li pregusto… eccoci qui, siamo arriva…”
C E R R A D O • C H I U S O • C L O S E D
Ma come chiuso!?!? E’ venerdì pomeriggio! Siamo in pienissima zona-dolcino! Nada, il cartello affisso su una porta chiusa come fosse l’accesso a Fort Knox, informa che le monache vendono i dolcini “solo la domenica e nei giorni di festa“.
Trattengo imprecazioni che è meglio non pronunciare nelle vicinanze di un convento. E mestamente ripiego su un trancio di plumcake al plutonio arricchito comprato al supermercato.
“Monache, m’avete provocato e poi m’avete distrutto…”
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